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Un Tarantino nel palazzo di Siddharta

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Questo pezzo è uscito su Lo Straniero.

Per capire – oltre le ragioni dell’istinto – perché Django Unchained, ultimo film di Quentin Tarantino, unisca alla piacevole visione (come per ogni opera dell’autore di Pulp Fiction, ritmo dialoghi colonna sonora fotografia e incastri narrativi esplorano molto bene – come avrebbe detto Carmelo Bene – tutti i doveri del talento a dispetto delle umili possibilità del genio) la sensazione di una inutilità ormai storica, si può giocare a contrario la sua stessa partita, evocando qualcosa di solo apparentemente estraneo, allo scopo di assimilarlo e usarlo come chiave di volta. Per farlo, bisogna tornare ai mesi compresi tra 1991 e 1992.

Nel 1992 esce Le iene. Ma pochi mesi prima, il mondo del pop che ha ancora la musica come epicentro registra un terremoto (o meglio una sua reificazione) di cui si continua a parlare ancora oggi: Nevermind dei Nirvana. Non solo un album di rock alternativo sconquassa dopo tanto tempo il mercato musicale e le abitudini dei suoi fan, ma, per la prima volta, MTV inizia a trasmettere in modo compulsivo qualcosa che fino a quel momento era sembrato destinato solo ai circuiti marginali. La stessa cosa quell’anno accadrà a un altro gruppo musicale alternativo, i R.E.M.

La novità non stava tanto nel successo di questi gruppi (la storia del rock, dai Pink Floyd in giù, è piena di tentativi audaci ripagati con milioni di copie vendute) ma nel fatto che, per la prima volta, la comunicazione mainstream (quale stava diventando in quegli anni MTV) iniziava a promuovere progrmmaticamente le sottoculture. Confesso che quando vidi per la prima volta i videoclip di Smells Like Teen Spirit e Loosing my Religion in televisione, il diciottenne che ero pensò molto ingenuamente: “abbiamo vinto”. Mi illudevo cioè che le culture alternative stessero prendendo il posto del mainstream, ma ovviamente era il contrario: il secondo iniziava a divorare le prime, le quali risultavano con tutta evidenza commestibili. Era l’inizio del processo che porterà il rock (da musica del diavolo) a diventare la colonna sonora dei centri commerciali, quindi davvero la musica del Diavolo.

Ma se davvero un movimento come il grunge (di cui i Nirvana con i Pearl Jam erano la punta di diamante, e di cui, in modo traslato, iniziarono ad alimentarsi il cinema, la televisione, la moda, e ciò che restava dell’antropologia delle sottoculture urbane) era tanto disposto a farsi assimilare malgrado e al di là della buona fede di alcuni suoi protagonisti (commovente e straziante nella sua ingenuità il caso del primo Cobain), questo era possibile anche perché si trattava di movimenti più derivativi che fondativi. Stava per iniziare, cioè, l’epoca delle cover e dei campionamenti mascherati (essendo rozzamente più espliciti quelli, anteriori, della prima e seconda ondata rap).

Cos’era in fondo il grunge? Era la rivisitazione in chiave pop del punk. Si trattava, in definitiva, dopo quell’onesto funerale delle controculture musicali che fu la dark e la new wave (onesti perché dicevano: “il rock è morto, noi ne celebriamo il funerale, ma sappiate che da ora in poi dovrete diffidare di questo tipo di espressività poiché il cadavere è vero, ma tutto ciò che vedrete camminare al ritmo di quattro quarti sarà lo zombie imbellettato dell’eversivo che si rovescia in reazionario), della resurrezione del pop come fantasma. La stessa cosa iniziava a succedere con la letteratura di un certo postmoderno: citazionismo, rimescolamento dei generi, pretesa ironica di non fondatività, suprema illusione che tutto fosse stato già detto e che il gioco di specchi fosse un sistema intelligente e delicato per indagare un’umanità ormai pacificata (era l’epoca in cui si sparavano fesserie sull’Età dell’Acquario illudendosi che la Storia fosse finita).

In questo filone si inserisce anche Quentin Tarantino, diventandone in pochissimo tempo il campione riconosciuto. Se il mondo è una felice e ricca (e disinfettata) discarica di cultura visiva occidentale i cui pezzi aspettano solo di essere riassemblati per celebrarla (non per celebrare ciò che furono in origine, ma per il significato cui assurge la magnifica discarica in cui la sensibilità contemporanea finisce per confinarli, di fatto stravolgendoli), il talento che meglio si adatta alla missione è proprio quello di uno come Tarantino, così intriso di intelligenza, umorismo, perizia filologica, gusto per l’incastro e per un dialogato che paradossalmente fonda la propria originalità nell’ermeneutica di prodotti culturali già dati (Le iene si apre su una dotta, quasi accademica – l’abbondanza di “motherfucker” non inganni – dissertazione su Like a Virgin di Madonna).

In questo modo Tarantino coverizza i puzzle di Rapina a mano armata (appunto con Le iene), i pulp magazines e relative filiazioni cinematografiche (Pulp fiction), la blaxploitation di Superfly (Jackie Brown), le arti marziali (Kill Bill), l’exploitation questa volta bianca (Grindhouse), il war-movie-comedy con spruzzate alla Lubitch (Bastardi senza gloria) fino allo spaghetti western con testacoda teutonici (appunto Django Unchained).

Ma cosa accade nel frattempo, cioè dal 1992 de Le iene al 2013 di Django? Accade che questa celebrazione dello sciopero degli eventi a cui la cultura occidentale si illudeva di potersi votare, viene messa in crisi dalla ruota della Storia che riprende a muoversi. L’11 settembre non è che l’evento più spettacolare ma non più rilevante del contromovimento con cui il breve interregno seguito all’89 si chiude. Insieme all’attacco delle twin towers arrivano la crisi economica, i nuovi nazionalismi, gli scricchiolii sempre più chiari delle democrazie rappresentative, l’invasione tecnologica che da una parte è al servizio della più brutale sperequazione e dall’altra modifica antropologicamente i cittadini della democrazia così come l’avevamo sperimentata in Occidente nella seconda metà del Novecento, i quali sono o erano anche i fruitori di quei libri, quella musica e quei film di cui Tarantino si è così voracemente nutrito.

Man mano che la Storia voltava pagina, diventava sempre più chiaro il senso del postmoderno alla Tarantino. Si trattava, mi sembra di poter dire oggi, da una parte di un cinema che consapevolmente non prevedeva cosa sarebbe accaduto dall’inizio del XXI secolo in poi (un cinema convinto, cioè, che la tappa ultimativamente storica, e quindi estetica, di Europa e Stati Uniti, fosse una quieta, agiata, divertita e meditabonda fine degli eventi a cui non resta che giocare speculativamente a rimpiattino con tutto ciò che la brutalità della Storia ha già fondato, dal momento che, finita felicemente la Storia stessa, il sangue che per fortuna non sarà più versato non produrrà di conseguenza per reazione niente di nuovo), e dall’altra di un cinema che invece inconsapevolmente ha una terribile paura proprio del contrario, cioè che la Storia ritorni a irrompere sulla scena con tutta la sua violenza e il dolore che ne consegue.

La famosa videoteca che Tarantino continua a rievocare come il proprio luogo di clausura giovanile è in fondo il Palazzo di un Siddharta che, temendo come in effetti è che esistano più cose (vere e dolorose) tra cielo e terra di quanto ne contenga l’intera filmografia mondiale, preferisce rifugiarsi in quest’ultima (e con quest’ultima giocare allo stregone) pur di non mettere il naso fuori da una prigione fatta di immaginario. Fuori nel frattempo ingrossa la tempesta, il vento ulula e distrugge case. Per questo – rimasto quasi intatto il suo notevole talento, e sempre godibili le opere – di film in film Tarantino si è rivelato sempre più posticcio (il che non è in contraddizzione con l’intatta godibilità dei suoi film).

Se Le iene e Pulp fiction incarnavano bene lo spirito del tempo (un’epoca che si credeva immune da qualunque dolore che non fosse autoreferenziale), con Django Unchained il gioco è ormai talmente collaudato, e talmente superato da ciò che è accaduto al mondo nel frattempo, da farci scivolare agevolmente sulle curve del suo lifting sin dalla prima scena.

Il dramma sta nel fatto che i film di genere da cui Tarantino trae ispirazione avevano, persino nel peggiore dei casi, un forte significato almeno sintomatico – nella blaxploitation c’era ad esempio una genuina seppur becera spinta rivendicativa degli afroamericani (vi si ritrovava la reazione al tradimento del magistero di Martin Luther King) così come dagli spaghetti western trasudavano i problemi e le contraddizioni degli anni Sessanta e Settanta italiani. Affrontare il problema della schiavitù negli U.S.A. giocando di rimbalzo con una fonte d’ispirazione totalmente immaginifica (gli spaghetti western visti non in un cinema milanese all’indomani di Piazza Fontana, ma in una videoteca di Manhattan Beach, Los Angeles, alla metà degli anni Ottanta come noi italiani nello stesso periodo potevamo vedere in differita i cartoon di Hanna&Barbera) è ancora una volta all’insegna di quel cinema della paura (del regista) di cui si diceva: affrontare un tema traumatico con un’estetica la cui vera missione sta proprio nel rimuovere il trauma o addirittura la sua contemplabilità.

Mi sono molto divertito a guardare Django Unchained: a ogni istante godevo del talento del regista e mi illudevo che persino la riduzione in schiavitù degli afroamericani avesse poco a che fare con tutto ciò che era mai successo o stava ancora succedendo nel pianeta, fuori dalla sala cinematografica.


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